lunedì 25 ottobre 2021

CONOSCENZA E INIZIAZIONE NELLA SCUOLA PITAGORICA


 

lunedì 7 novembre 2016

Così la poco attraente Rimini finì nel Grand Tour di Paolo Zaghini

 Tratto da Chiamamicitta.it :



Attilio Brilli (a cura) All’epoca del Grand Tour. Viaggiatori stranieri lungo le vie consolari.
Banca CARIM.

Mah … alla fine dopo aver sfogliato questo volume uno si domanda perché esso sia stato edito. Belle le foto a tutta pagina che prevalgono sicuramente sul testo, molto conciso ed essenziale. Ma privo di un “cuore” centrale del racconto.
Attilio Brilli è uno dei massimi storici della letteratura di viaggio, oltre che autore di numerosi testi storici e interpretativi sull’argomento. Docente universitario, è stato per molti anni professore ordinario di Letteratura angloamericana presso l’Università di Siena. Digitando il suo nome sul catalogo on-line delle biblioteche OPAC Romagna (e dunque non quello nazionale) emergono, dai primi anni ’70 ad oggi, 220 pubblicazioni a suo nome fra testi propri, curatele, traduzioni: una produttività editoriale altissima. Con saggi importanti, tra i quali vanno citati almeno lo studio sulla pratica del Grand Tour Quando viaggiare era un’arte (Il Mulino, 1995), l’opera enciclopedica sulla pratica del viaggio in Italia dal Medioevo a oggi Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (Il Mulino, 2006), le indagini sul viaggio come scoperta di un mondo altro de Il viaggio in Oriente (Il Mulino, 2009) e quelle sul viaggio come esplorazione e conquista illustrati in Dove finiscono le mappe (Il Mulino, 2012) e in Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci (Il Mulino, 2013), in cui sono descritte le epiche imprese dei mercanti del Medioevo che aprirono nuove vie ai commerci fra Oriente e Occidente. Tra i suoi lavori più recenti Il grande racconto del viaggio in Italia. Itinerari di ieri per viaggiatori di oggi (Il Mulino, 2014).
E’ da quest’ultima opera che nasce il volume della Carim, ma anche quello della Banca Valconca Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche: XIX – XX Secolo (2014). Entrambi i volumi sono una riduzione a strenna bancaria di un’opera importante. Una operazione commerciale/editoriale che mi porta a chiedere: perché?
Lo dico in quanto so benissimo le difficoltà che esistono per far finanziare progetti editoriali del territorio, anche importanti. Mi si potrà rispondere: ma cosa vuoi? I soldi sono nostri e decidiamo di spenderli come ci pare. Giusto, ma fino ad un certo punto. Chiedo dunque al sistema bancario riminese più attenzione al lavoro di ricerca e di produzione dei centri culturali del territorio, cosa che in parte diversi istituti (ma non tutti) stanno già facendo. E in questi anni di crisi anche il più piccolo finanziamento è prezioso per consentire il prosieguo di attività che danno alla Città risultati importanti.
Mi scuso con Brilli per averlo chiamato in causa. Non è la sua competenza in discussione. Mi sia dunque consentito dire che il capitolo del libro edito dalla Carim e dedicato a Rimini ha annotazioni interessanti. L’essere Rimini crocevia: “nella lunga stagione del Grand Tour e quindi del viaggio in Italia, tra la fine del XVI e gli inizi del XX secolo, non c’è viaggiatore che non faccia tappa a Rimini, sia che provenga da Roma o da Bologna, oppure da Perugia o da Ancona”.
Brilli cita poi le relazioni di viaggio degli inglesi Joseph Forsyth di inizio ‘800, di John Addington Symonds negli anni Settanta dell’800, di Edward Hutton a cavallo fra ‘800 e ‘900, dell’americano Dan Fellows Platt che nel 1904 percorre l’Italia “with car”. Ed infine l’inglese Adrian Stokes negli anni ’30, autore dello straordinario volume Stones of Rimini dedicato al Tempio Malatestiano (tradotto nel 2002 da Moreno Neri per l’editore Raffaelli).
Il giudizio di tutti questi forestieri su Rimini è comune: “Rimini non è una città attraente, … una città in nessun modo pittoresca, una città campagnola che s’estende quasi alla maniera dei suburbi industriali del nord” (Stokes). Ma nel caso di Stokes poi c’è l’incontro con il Tempio Malatestiano e la scoperta della figura di Sigismondo Pandolfo Malatesta: un amore a prima vista.Nella Presentazione del volume è scritto: “Un tempo la circolazione di persone da un luogo all’altro dell’Europa era legato ad eventi contingenti: commerciali, diplomatici, bellici, religiosi; o culturali in senso stretto: si pensi ad esempio a quella esigua minoranza di studenti che nel Medioevo frequentò le università di Bologna, Siena, Padova. Dalla seconda metà del ‘500 e viepiù nel corso del ‘600, la connotazione del viaggio finì per coincidere con quella del Grand Tour che nel ‘700, Epoca dei Lumi, divenne fenomeno diffuso e à la page: alcune privilegiate elite di touristes, inglesi soprattutto, fecero dell’Italia, il mitico approdo di virgiliana memoria, la meta privilegiata delle loro peregrinazioni laiche, alla ricerca di testimonianze dell’antichità greca e romana”. Ed è così che anche Rimini finì nel circuito del Grand Tour.
Paolo Zaghini




venerdì 14 ottobre 2016

TESTA MATTA: MONTHERLANT E IL SUO "MALATESTA"

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Da “LA VOCE DI ROMAGNA”, venerdì 7 ottobre 2016, p. 26

TESTA MATTA
70 anni fa Montherlant, scrittore
eccentrico, eretico e toreador
compone “Malatesta”. Scoprirà
poco dopo che la sua nutrice era
una discendente di Sigismondo

Parole sante. «I peggiori nemici d’un uomo sono i suoi compatrioti».
Le pronuncia Sigismondo Pandolfo Malatesta, secondo il Malatesta di Henry de Montherlant. La frase spiega, in modo sintetico, i rapporti che Rimini stringe con i grandi suoi. Se può li dimentica. Altrimenti, li defenestra. Sul Malatesta di Montherlant abbiamo abbozzato un pensiero ieri, nelle pagine della cronaca riminese. L’episodio, però, è esemplare: intorno al corpo di Malatesta, che il prossimo anno fa 600 anni, hanno scritto due giganti della letteratura occidentale. Ezra Pound (la porzione dei Cantos dedicata al condottiero) e Montherlant, che 70 anni fa redige una pièce teatrale, Malatesta, appunto, quasi subito (nel 1952) tradotta in italiano da Camillo Sbarbaro, il poeta che si studia anche a scuola, per Bompiani. Entrambi, però, Pound e Montherlant, sono beatamente ignorati dalla città di Rimini, nella rappresentazione che di essa ne danno i suoi amministratori. Il problema di fondo? Che Pound e Montherlant sono delle bestie esteticamente titaniche ma politicamente poco addomesticabili. Pound per i problemi che sappiamo (adesione fascista), Montherlant, autore di romanzi bellissimi e fautore di «un’estetica del contrasto e della diversità», nato 120 anni fa, perché devoto all’individualismo assoluto, siderale, «Montherlant aspira a una morale della qualità: ammira la cavalleria medioevale e l’ideale dei samurai; le imprese impossibili esercitano su di lui una strana attrazione» (Favre). Pur Accademico di Francia, infatti, le bizze di Montherlant, autore molto tradotto un dì (Mondadori e Bompiani soprattutto) e un faro dimenticato oggi, nell’epoca dell’afasia e dell’automatismo (Adelphi ha in catalogo il feroce Le ragazze da marito, mentre Aragno, l’anno scorso, ha pubblicato il capolavoro teatrale del francese, Port-Royal), non stavano né a destra né a sinistra. Toreador per sfidare la morte (nel 1925 un toro gli perforò il fianco), centometrista eccellente, calciatore notevole, eroe della Prima guerra (fu solcato da sette schegge di granata), «stilista che ausculta l’io, religioso dell’istante, cattolico per tradizione familiare ma nel senso di una chiesa che manta la guardia al dio Pan, anarchica, uomo del rinascimento» (Gianni Nicoletti), Montherlant ci lascia, nel giorno di equinozio del 1972, quasi cieco, sparandosi. Di antica famiglia aristocratica, Montherlant succhiò il latte da una nobile amica della madre, Marie de La Fontaine Soliers. La quale, «era discendente dei Malatesta». La storia la narra l’eccentrico francese in Latte dei Malatesta (stampato in L’infinito è dalla parte di Malatesta, Raffaelli, 2004): l’amico Maurice Bedel gli squaderna «una genealogia, stampata nel 1680», in cui la stirpe dei Fontaine Soliers si connette ai Malatesta, con cui condividono lo stemma. «Ed è innegabile che la donna che mi diede il seno, a pari con la mia nutrice, avesse legittimamente il medesimo blasone che aveva Sigismondo Pandolfo Malatesta». Ergo: «che un autore scopra in questo modo, a cose fatte, una sorta di parentela reale tra uno dei suoi eroi e lui stesso non vi è in ciò di che sognare?». Micidiale Montherlant, che in un passaggio supremo della pièce, in cui il Malatesta fronteggia e sfida il Papa, fa dire al gran riminese, «Prendermi Rimini! A me! a me! a me! Ma il mare che batte le spiagge di Rimini e vi si frange, ripete il nome di Malatesta». Montherlant, ossessionato dalla figura del Malatesta (esiste anche un suo scritto sulla Medaglia d’Isotta scalfita da Matteo de’ Pasti), ammette, «quante volte non ho sognato “Se potessi veder rappresentare Malatesta nella Rocca!”». II sogno si realizza il 28 luglio 1969, quando «con un anno di ritardo sul cinquecentenario» (non le azzeccavano neppure allora), Malatesta va in scena a Castel Sismondo. Regia di José Quaglio, Arnoldo Foà a fare Sigismondo e Tino Carraro nel ruolo di Paolo II. «Non si allontaneranno da me le creature nate dalla Storia e dai miei sogni, dal mio rispetto profondo e dal mio più profondo amore, miei figli e mie figlie quanto più sicuri dei figli che la nostra carne distratta disperde nella materia occasionale», scrive Montherlant, in un articolo offerto al “Resto del Carlino”. Chissà perché a nessuno è venuto in mente di ripigliare il Malatesta. Perplessità “politica”? Magari, qui si annega soltanto nell’ignoranza. (d.b.)

In scena a Rimini nel 1969, ha passaggi
fulminei: «Prendermi Rimini! A me!
Ma il mare che batte le spiagge di Rimini
e vi si frange, ripete il nome di Malatesta»

Non abbiate paura di onorare Malatesta

LA CHICCA UN BRANDELLO DALL’ARTICOLO DI MONTHERLANT PER LA MESSA IN SCENA
DEL SUO LAVORO A RIMINI. UN INNO ALLA POTENZA DELL’INDIVIDUO CONTRO L’IDEOLOGIA


Malatesta vantava la sua discendenza da Scipione l’Africano, col sorriso intimo, io credo, di chi non si lascia ingannare dai propri sogni ma getta nel fuoco tutta ciò che gli si offre per avvivare la fiamma. Con quel medesimo sorriso io stesso ho accolto un giorno la notizia che, se nel latte è contenuto il sangue, in me c’era qualche goccia di sangue malatestiano, dal momento che un’amica di mia madre, che mi allattò, discendeva dai Malatesta (ne constatai la discendenza su di una pergamena vecchia di due secoli) e su di un anello portava lo scudo di Sigismondo. E con quel medesimo sorriso accolsi un’altra volta la frase di Jean Cocteau: «Montherlant è l’aquila a due teste: la testa del Maitre de Santiago, quella di Malatesta». Quando Malatesta fu scomunicato, spogliato della sua autorità, condannato al fuoco, i suoi sudditi fuggivano davanti a lui come davanti al diavolo, e il gentile Novello suo fratello passava alle truppe del papa. Gli Italiani di oggi non hanno timore di onorare la memoria di questo eterno accusato. E ciò li onora perché così facendo non celebrano il campione di una qualsiasi causa o ideologia nebulosa, destinata a svanire nella nebbia; ma celebrano il raro personaggio in cui si condensarono il talento, le conoscenze e le passioni.
Henry de Montherlant

Exit

Sognare
la mia morte
fa parte
integrante
dell’amore
che si
ha per me

Henry de
Montherlant
(da “Malatesta”)




mercoledì 12 ottobre 2016

Si sono dimenticati pure di “Malatesta”


Da “LA VOCE DI ROMAGNA”, giovedì 6 ottobre 2016, p. 10

Si sono dimenticati pure di “Malatesta”

Si sa, l’anniversario fa venire la bava alla bocca all’intellettuale. Ai mandarini riminesi, quelli che stanno chiusi a Palazzo Garampi, al contrario, gli anniversari fan solo girare le balle. Lasciamo stare il cinquecentenario dalla morte di Giovanni Bellini, l’icona del Museo della Città (dimenticanza che imbarazza la cultura civica), ricordiamoci, per lo meno, che il prossimo anno sono i 600 dalla nascita di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Sul Malatesta, di cui il Sindaco Andrea II Gnassi si sente il pimpante erede, si presume, il Comune farà qualcosa. La frittata, intanto, per quest’anno, è fatta. 70 anni fa, infatti, viene pubblicata Malatesta, pièce marmorea e barocca, «un epitaffio al culto della Rinascenza» (Luca Scarlini), scritta da Henry de Montherlant, tra i grandi scrittori francesi del Novecento, un tipo che «sfugge a ogni classificazione», pubblicato in Italia da Bompiani, Mondadori, Adelphi. Il testo, poi, compilato sul crinale della Seconda guerra, quando Montherlant, troppo esagitato per i “rossi”, troppo esclamativo per i “nazi”, «isolato dal mondo, sognava un eroe» (Giuseppe Scaraffia), prese la via del teatro (nel 1950, al Théatre Marigny) e della televisione (nel 1967). Il “dramma in quattro atti” dedicato a Sigismondo Pandolfo Malatesta, «condottiero, poeta, erudito, mecenate, assassino, sfrenato donnaiolo nonostante l’amore appassionato che in lui non vien mai meno per la moglie Isotta, leggero abbastanza per far erigere una chiesa in cui non c’erano che simboli pagani, grave abbastanza per vivere come gli anacoreti con un teschio sul tavolo, sacrilego abbastanza per venir condannato al rogo dal Santo Ufficio, religioso abbastanza per morire cristianamente» (Montherlant), gode di una traduzione nobile in italiano, quella del poeta Camillo Sbarbaro, pubblicata in origine da Bompiani nel 1952 e ripresa da Raffaelli nel 1995. L’ossessione di Montherlant (autore di romanzi assoluti come Il caos e la notte e Le ragazze da marito) per il Malatesta è testimoniata dal libro, stratosferico, L’infïnito è dalla parte di Malatesta, edito sempre da Raffaelli, nel 2004. In quelle pagine, Moreno Neri ci ricorda che il Malatesta di Montherlant cascò pure a Rimini, nel «cinquecentenario della morte di Sigismondo Pandolfo Malatesta», era il 1969, nella Rocca, con Arnoldo Foà protagonista. «Malatesta è l’eroe solamente di se stesso; ed è l’individuo solo, senza i suoi fini e le sue ragioni, ad essere esemplare per i fini e le ragioni di sempre», scrisse per quell’evento Montherlant medesimo. Fu un trionfo. Montherlant quest’anno farebbe 120 anni ma poco importa se a Rimini nulla importa della ricorrenza, ci abbiamo fatto il callo. D’altronde, non esiste più neppure un Assessorato ‘alla cultura’. Pessimo segno. (d.b.)

CULTURAME Usciva 70 anni fa il testo
teatrale dedicato dal geniale Montherlant
a Sigismondo. Capitò a Rimini, nel 1969...

mercoledì 28 settembre 2016

Fuocoammare in corsa agli Oscar. Pietro Bartolo: “Grazie a Rosi che ha saputo raccontare nel modo giusto quello che in 25 anni ho tentato di dire”

Sul palco il Gran Maestro e il medico di Lampedusa Pietro Bartolo



Pietro Bartolo con Stefano Bisi a Villa Il Vascello il 17 settembre
Il Gran Maestro Stefano Bisi con Pietro Bartolo e il giovanissimo Domenico Buccafurri

Riflettori ancora più accesi su Lampedusa e il dramma dei migranti. Una tragedia  raccontata solo pochi giorni fa da Pietro Bartolo, medico in prima linea nell’isola che è stato ospite del Grande Oriente d’Italia al Vascello in occasione delle celebrazioni per il XX Settembre e i 70 anni della Repubblica. Una realtà, quella degli sbarchi, per troppo tempo considerata solo italiana e che diventa finalmente mondiale grazie al cinema. Parliamo del film documentario “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi che, dopo aver vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino, è ora candidato all’Oscar per il miglior film in lingua non inglese. La cerimonia di consegna si terrà a Los Angeles il prossimo 26 febbraio.
“Fuocoammare” racconta con immagini molto forti la vita quotidiana a Lampedusa tra normalità e dramma con gli sbarchi dei migranti. Pietro Bartolo è tra i protagonisti, nella sua professione di medico che nella realtà di tutti giorni, da più di due decenni, si occupa senza sosta delle prime visite a tutti i migranti che arrivano a Lampedusa e di quanti soggiornano nel centro di accoglienza.
“Viva il cinema”, dice Bartolo ai microfoni di RepubblicaTv. “Il cinema è un’arte molto potente – ha aggiunto – che riesce a entrare nel cuore della gente. Grazie a Rosi che ha saputo raccontare nel modo giusto quello che in venticinque anni ho tentato di dire”.
Nel convegno del 17 settembre al Vascello Pietro Bartolo ha commosso il pubblico del Grande Oriente d'Italia. Il suo racconto degli sbarchi di Lampedusa, degli uomini, delle donne, dei bambini  in fuga dalle guerre e dalla fame, che ogni giorno il mare porta in Italia, le foto, il filmato che ha mostrato, hanno  messo  tutti di fronte ad una delle più drammatiche realtà della nostra epoca. Con crudezza e umanità. “Non chiamateli clandestini – ha detto il medico -. Sono persone che cercano una via di salvezza dagli orrori dei conflitti e della carestie. Una via di salvezza che non sempre riescono a trovare. È una umanità sofferente, che dobbiamo sapere accogliere, e alla quale dobbiamo restituire la speranza, non sottovalutando o addirittura negando le responsabilità in nome del dialogo”.




Un passaggio del video presentato da Pietro Bartolo durante il convegno 'Per l'Italia, per la Repubblica' realizzato il 17 settembre al Vascello per i 70 anni della Repubblica e l'anniversario del XX Settembre. Nelle immagini scene agghiaccianti che documentano la tragedia dei migranti a Lampedusa.